KOSTABI MARK
Mark Kostabi è nato a Los Angeles nel 1960 ed è cresciuto a Whittier, una città quasi archetipo della California del sud, dove è facile immaginare la trama di un romanzo di James M. Cain svolgersi dietro le mura intonacate di una casa qualunque. Città natale di Richard M. Nixon, il truffatore, e di M.F.K. Fisher, il cuoco, Whittier è uno dei luoghi di frontiera che evoca estrema eccentricità e banalità allo stesso tempo. O forse sarebbe più esatto dire che come la maggior parte dei luoghi ordinari, esibisce una normalità che cela un’immensità di stravaganze. Le radici etniche di Kostabi sono estoni, il che aggiunge uno strano tocco al frammentato quadro della sua biografia. Kostabi studiò arte a Cal State Fullerton. Ancora studente venne notato dalla commerciante d’arte Molly Barnes, la quale vendette i suoi lavori a luminari di Hollywood come Ray Stark, Doug Cramer, Norman Lear. Uno dei primi collezionisti delle sue opere fu Billy Wilder. In molti dei quadri di Kostabi c’è un’atmosfera da film noir. Ciò che io chiamo il ‘’color Kostabi’’, l’inconfondibile look dei suoi interni, della gente, delle strade, degli animali e di una schiera di altri soggetti, è un miscuglio di tinte saturate e di monocromi gravati dall’ombra, che suggeriscono un claustrale, sinistro aspetto delle relazioni sociali, di certe prospettive e strutture fatte dall’uomo e di esseri alati e demonicamente bizzarri, che sembrano emanati da un differente ordine di realtà, un pianeta diverso. Mark Kostabi era ovunque durante l’Art-a-Roma dell’Est Village e sebbene molti erano gli artisti che facevano tutto ciò che riuscivano ad escogitare per attirare su di sé l’attenzione, il debutto di Kostabi fu, nella mente di tutti, esagerato. Aveva l’abitudine di spingersi nelle foto di artisti famosi e di altre celebrità. La sua disinibita auto-promozione faceva storcere il naso a molti. Come scrive Walter Robinson, ‘’All’inizio della sua carriera, Mark Kostabi fu un po’ furfante’’. Una parola dura, ma non inappropriata. Non fece segreto del suo desiderio di denaro e successo, laddove molti artisti trattavano quest’argomento con molta cautela e completo sdegno. Kostabi ottenne la sfavorevole reputazione da sfacciato ‘’spaccone’’, nonostante il suo innegabile talento, in un mondo d’arte che aveva iniziato a vedere se stesso sotto una falsa luce, o che aveva solamente trovato le sue buffonerie sgradevoli. E in più luoghi i lavori di Kostabi apparivano e più egli sembrava innescare avversione fra artisti e commercianti. Illustrando il meccanismo produci soldi nel mondo dell’arte, Kostabi stava, piuttosto volgarmente, rivelandone i segreti. Quando aprì il Kostabi World, un ‘’cugino’’ della Factory di Wharol, il suo stato di outsider era, in un certo senso, istituzionalizzato. Il populismo implicito in ciò che faceva, urtava la posizione elitaria di un establishment che provvedeva a soddisfare una limitata clientela. Non è sorprendente che il suo lavoro goda di più ampia stima in Europa, e particolarmente in Italia, di quanto generalmente faccia a New York. Gli europei non hanno, nei confronti dei suoi quadri, le stesse preconcette idee su chi Kostabi sia, e non si aggrappano a un’antiquata idea di come un’artista è. Il lavoro di Kostabi è intensamente sociologico, e i suoi quadri riprendono, in maniera molto stilizzata e condensata, il modo in cui la vita quotidiana è stata trasformata dalla rapidità del cambiamento tecnologico, il condizionamento della coscienza dai mass media e ciò che potrebbe essere chiamata la riproduzione esponenziale delle stesse attività umane. Ci sono, ad esempio, molti quadri ambientati in locali e caffetterie, a volte fortemente riecheggianti Edward Hopper, in cui i solitari di Hopper assumono l’apparenza di ciò a cui William Burroughs, in un contesto differente, si rifaceva come ‘’forme di vita incompatibili’’: la loro capacità di comprendere l’altro somiglia a quella di entità predatrici che valutano le proprie potenziali prede. La malinconica solitudine che descrisse Hopper, diviene, nei remake di Kostabi, qualcosa di differente: la solitudine è lì, potentemente lì, ma l’ingiunzione del ‘’uccidere o essere uccisi’’ è in agguato da tutti i lati. I quadri che raffigurano piano bar e cocktail lounge evocano situazioni meno pungenti. Il piano e la tastiera, ovunque appaiano, gettano sull’implicita narrativa di un quadro un magico fascino di orchestrazione. La presenza di un piano o di altri strumenti musicali sottolinea, mediante l’atmosfera, che la musica condiziona lo stato d’animo dei luoghi in cui si sente e simboleggia anche lo sforzo della musica di condizionare la vita ricorrendo a delle sensazioni differenti da quelle visive.